Suoni di vetri frantumati, piccole schegge di dolore attaccate alla carne, al cuore. Un cuore carico di tormenti e avvezzo alla malinconia, che non conosce riposo, che non si cela dietro il clamore. Parole pesate, laceranti, rassicuranti, l’umana urgenza di concedersi come testamento d’infinita verità.
“Perché è peccato sciupare una notte per non dire che il vero. Il mio mestiere l’ho appreso soltanto da me. Io distinguo due cose nel buio. Io penso, e posso, ordinatamente contraffare tutto che mi circonda. Io ricordo, ed ogni memoria niente m’è possibile mutare.”
In un tempo di finzione e frammentarietà, la poesia può apparire come arido terreno per pochi incauti seminatori di parole. La poesia di Beppe Salvia è invece una zolla fertile da cui germogliano i semi della riscoperta e crescono frutti, già maturi di consapevolezza. Riecheggiano “cose lontane e vicine” nella sua impellente necessità di non concedere tregua al tempo ma solo alla propria caducità.
“A scrivere ho imparato dagli amici, / ma senza di loro. Tu m’hai insegnato / ad amare, ma senza di te. La vita / con il suo dolore m’insegna a vivere, / ma quasi senza vita, e a lavorare, / ma sempre senza lavoro”.
Impariamo dall’assenza a percorrere strade sconosciute, impariamo ogni giorno che la salvezza non può esistere senza mancanza, impariamo così dalla vita, a riconoscerci anche per quello che non siamo. Una voce d’eterna giovinezza, parole immortali che resteranno rannicchiate in fondo ad ogni anima.