belvedere san nicola arcella

Premio Torre Crawford 2024, Sezione B, racconto II classificato

Una sola strada dovevo attraversare per cambiare vita e finalmente lasciare il passato alle spalle.
Fu una decisione molto impegnativa: non volevo diventare il vecchio ricordo dei miei amici, quella persona che nonostante tutto, andava a finire nel dimenticatoio delle conoscenze.
Ormai tutte le cose di cui ero certo si erano trasformate in incertezze, a volte momentanee ma altre durature. Persi lavoro e amici e alla fine mi accorsi che la facoltà che avevo intrapreso all’università era quella sbagliata.
Mi trovavo nel mio periodo buio, nulla aveva più senso. Ero una piccola boa persa in un immenso oceano. Trovai una scusa perfetta per convincermi ad andare avanti: Carpe diem, cogli l’attimo, una frase che mi si era presentata agli occhi numerose volte, ma che non avevo mai capito come applicare alla vita reale.
Mi accorsi della muffa, in alto, sulle pareti della mia stanza, in alto. Di solito le imbiancavo per coprire il colore grigiastro che restava dopo averci strofinato il panno; ultimamente però non avevo nemmeno le forze per prendere la scala giù in cantina.
Fu in una di quelle giornate trascorse a fissare il soffitto che il telefono mi squillò. Era l’agenzia alla quale, mesi prima, mi ero rivolto per trovare un lavoro all’estero. Finalmente ne avevano uno: Los Angeles.
Avevo tutto, per fortuna mi ero messo da parte un po’ di soldi, mi mancava solo di accettare e confermare. Molti potrebbero pensare che fossi felice quando mi arrivò la notizia, ma in realtà ero molto impaurito dall’idea di partire e cambiare vita: a Milano avevo mamma, papà, Silvia, Eleonora ed Emanuele, quest’ultimo però non lo vedevo da 3 mesi 17 giorni 14 ore 56 minuti e 13 secondi… anzi, 15. Non riuscivo a pensare a un’esistenza senza di loro, erano le persone più importanti della mia vita.
Mi decisi. Accettai il lavoro e scrissi tre lettere: una per i miei genitori, una per le mie migliori amiche e una per lui.
Il giorno prima di partire, diedi due lettere a Silvia e le raccomandai di aprire solo quella contrassegnata col suo nome. Avrebbe saputo cosa fare dell’altra solamente leggendola.
A mezzanotte mi misi fare le valigie, ma dal comodino mi cadde la busta per i miei genitori. Rilessi quato avevo scritto: “Cari mamma e papà, spero che dopo aver letto queste parole non vi arrabbiate.
Ormai il vostro piccolo Michelino è cresciuto, ma non ha avuto la possibilità o il coraggio di dirvi chi fosse davvero. Vi siete chiesti perché ultimamente fosse così triste? La risposta sta in una persona.
Ora è felice, ha intrapreso un viaggio lontano e vuole cambiare il proprio futuro, non preoccupatevi per lui: è al sicuro. Baci Mimi.”
Il giorno seguente mi svegliai presto, presi l’unica valigia che ero riuscito preparare, lasciai la busta sul letto e chiamai un Uber. Mentre ero in macchina, mi arrivò una notifica sul telefono. Era Silvia: “Ho fatto ciò che mi avevi chiesto. Buona fortuna, amico mio, mi mancherai tantissimo, spero di rivederti presto! Ricorda: noi siamo infinito.”
Arrivato in aeroporto feci il check-in e gli ultimi controlli, ma mentre stavo per andare al mio gate, E13, vidi alla televisione un incidente stradale sull’autostrada che avevo percorso. Subito dopo notai una telefonata persa da Eleonora, con il relativo messaggio: “Ema si è appena scontrato con un camion mentre era diretto all’aeroporto, ora è in ospedale”.
Appena lo lessi, mi si fermò il cuore. Abbandonai l’aeroporto e corsi da lui.
Mi sorprendeva il fatto che avesse voluto salutarmi; l’ultimo nostro incontro non era andato molto bene, e sapevo benissimo di chi fosse la colpa di quello stupido litigio: era mia. Io e lui, fino a quel punto, eravamo una cosa sola; ci capivamo subito e soprattutto ci volevamo bene; quando stavamo insieme tutto il resto del mondo era vuoto. Riuscivamo a raggiungere universi che non esistevano. Noi eravamo tutto. Lui era la persona di cui parlava quel giorno il mio professore di religione: colui che ti rende soddisfatto e che ti soddisfa.
Arrivato in ospedale, lo cercai. Chiesi: “Emanuele Sandrini?”
L’infermiera rispose: “Nella stanza di emergenza E13. Per ora può ricevere solamente una visita alla volta.”
Mi sedetti davanti alla stanza. Uscì la madre.
Le chiesi: “Come sta?”
Lei non rispose e con la mano mi fece cenno di entrare, Dalla faccia sembrava senza speranze, come se il figlio stesse per lasciarci.
Lo vidi lì, disteso sul letto, attaccato ai tubi, con gli occhi chiusi.
Presi la sedia e mi sedetti vicino a lui, Gli toccai la mano interamente bendata, da cui spuntava solo il polpastrello dell’indice. Mi misi a piangere. Non ce la facevo a vederlo così. Non volevo perderlo, era la persona cui tenevo di più, l’unica che mi avesse fatto sentire davvero felice.
Gli parlai. “Ema, sono qui davanti a te ,non sono partito. Non mi lasciare da solo. Per favore, apri gli occhi. Ho bisogno di vedermi nella tua iride. Ti ricordi quando ci dicevamo, come dei bambini, che nessuno avrebbe mai lasciato l’altro? So di aver infranto la promessa, è colpa mia. Ti chiedo scusa per tutto quel che è successo, da quella litigata a oggi, perché anche se non ti vedevo so che hai sofferto molto pure tu. Immaginavo che tu e le ragazze vi incontravate ancora per questo chiedevo loro molto di te. ma nessuno mi diceva mai niente.”
Appena finii, silenzio tombale.
Eravamo solamente io e quel suono: Bip bip bip…
Lo fissai a lungo, facendo molta attenzione ai piccoli dettagli che la benda non riusciva a coprire. Lo baciai sulla fronte, gli sfiorai il polpastrello con la punta del naso, mi sedetti e mi poggiai allo schienale fino ad addormentarmi.
Poco tempo dopo mi svegliò col dito e disse faticosamente: “Finalmente sei qui, mi eri mancato.”
Lo baciai e con una penna gli disegnai un infinito con un piccolo cuore sul dito, eravamo noi due, quei due lobi, e il cuore simboleggiava il nostro amore infinito.
“Fino alla fine”, gli dissi e mi riaddormentai. Non sapevo se quanto era appena successo fosse un sogno, ma sicuramente fu la cosa più bella che mi sia capitata della vita.
Poche ore dopo venni svegliato da un medico che mi comunicò che dovevano portarlo in sala operatoria, per la completa amputazione dell’arto inferiore sinistro. Era doloroso vederlo in quelle condizioni: una persona così sorridente, piena di energie… Immaginarlo sotto i ferri mi distruggeva, avrei voluto essere al posto suo.
Un’ora dopo il dottore venne ad avvisarmi. “Mi dispiace, abbiamo fatto il possibile ma ci sono state molte complicazioni nell’esecuzione dell’intervento. Condoglianze.”
I miei occhi si riempirono di lacrime e chiesi: “Posso almeno vederlo per l’ultima volta?”
Mi fiondai subito da lui. Ma ormai era andato, non c’era più niente da fare.
I due giorni successivi rimasi rinchiuso nella casa di Silvia. non volevo avere interazioni con nessuno, smisi di mangiare e mi limitai solo a guardare tutti i nostri ricordi sul mio vecchio iPhone.
Il giorno del funerale vennero Eleonora e Silvia a chiamarmi. Bussarono alla porta e dissero: “Non succede niente se rimani lì da solo a piangere per questo dolore, vieni con noi e magari prova a tenere un discorso”.
Uscii dalla stanza e andai con loro.
Al funerale c’erano tutti: la famiglia, gli amici, persino quelli che sparlavano di lui, i parenti e i miei genitori.
Mi feci coraggio e tenni il mio discorso. “Sandrini, ti ricordi il primo giorno in cui ci siamo incontrati? Io sì, era il tredici settembre del 2021, ed era il nostro primo giorno di liceo. E la sai la cosa buffa? Ce l’ho ancora come password del mio telefono. Non avrei mai pensato che noi due potessimo essere perfetti e avere una relazione così straordinaria. Ricordo ogni singolo giorno di quando eravamo insieme e forse è proprio questo che mi ha dato il potere di rovinare tutto. La colpa è mia, lo so, ma non sono riuscito a impedire che tutto questo accadesse. Vorrei riaverti qui davanti a me per stare sotto lo stesso ombrello anche nelle giornate di sole, fare il bagno di mezzanotte al lago e fare quelle passeggiate insieme senza meta. Mi manchi e mi mancherai per sempre. Ti amo e ti amerò per sempre. Ti penso e ti penserò per sempre, amore mio.”
Finito il discorso, tirai fuori la pistola e puntandomela alla fronte dissi: “Se non puoi essere qui, verrò io da te”.