Letizia Imola

D: Oggi vi presentiamo Letizia Imola, una giovane e valente traduttrice che ha tradotto dal francese, per la prima volta in italiano, la “Francesca da Rimini” (1902), tragedia in cinque atti e un prologo scritta da Francis Marion Crawford su richiesta della grande attrice teatrale Sarah Bernhardt, al fine di dimostrare il suo indiscusso primato sulle scene d’Europa e d’America e così rivaleggiare con la Francesca da Rimini che D’Annunzio stava componendo per la sua Eleonora Duse. Il testo di Crawford fu rappresentato con grande successo il 22 aprile 1902 al Théâtre Sarah-Bernhardt di Parigi e poi di nuovo a Londra nella tournée del giugno 1902. La versione originaria di Crawford, quella del 1901, era in inglese e venne tradotta in francese nel 1902 da Marcel Schwob per poter essere rappresentata in Francia. E così, grazie all’attentissimo lavoro di traduzione di Letizia Imola, è stato messo a disposizione anche dei lettori del Belpaese, un testo in italiano, pubblicato nel 2021 per i tipi dell’Editore Vallecchi, con una presentazione di Natascia Tonelli e una postfazione di Ferruccio Farina. È da questo lavoro che siamo partiti, chiedendo la disponibilità alla dottoressa Imola per una intervista che ci potesse consentire di conoscerla meglio e di scoprire il “dietro le quinte” del sua traduzione della “Francesca da Rimini” di Francis Marion Crawford. Laureata in lettere moderne con uno studio svolto tra Siena e Parigi, la dottoressa Imola scrive e traduce dal francese e dall’inglese, si è occupata del romanzo nel secondo Novecento francese (Nouveau Roman, Oulipo) e della poesia di Jules Laforgue e, dal 2019, è redattrice della rivista di poesia e poetica Formavera (https://formavera.com).
Cominciamo innanzitutto ringraziandola e chiedendole come è diventata traduttrice e in quale ambito di traduzione opera?

R: Vi ringrazio a mia volta per esservi interessati a questo mio lavoro.
Sono sicuramente ancora una traduttrice in erba: il mio interesse per le lingue risale a prima del liceo e durante l’università ho svolto due soggiorni Erasmus in Francia, ma il lavoro di traduzione è qualcosa di relativamente recente. La tesi magistrale in stilistica francese mi ha portata a interessarmi alla traduzione perché mi sono occupata delle ultime poesie di Jules Laforgue, al tempo ancora inedite integralmente in italiano (nel frattempo è comparsa una più che ottima traduzione di Francesca Del Moro per Marco Saya).
In seguito, ho affinato le mie competenze con il master di II livello in Traduzione letteraria ed editing dei testi antichi e moderni presso il dipartimento di filologia e critica delle letterature antiche e moderne dell’Università degli Studi di Siena.
Escludendo questa esperienza con un testo teatrale, mi sono dedicata quasi esclusivamente a traduzioni poetiche.

D: Ha dei traduttori di riferimento che la ispirano o l’hanno ispirata nel suo lavoro?

R: Essendo la poesia il genere che prediligo, come traduttori di riferimento sono obbligata a citare Franco Fortini e Vittorio Sereni, che oltre a essere grandi poeti hanno scritto brillanti interventi critici sulla traduzione.
Per quanto riguarda rapporti più diretti e immediati potrei fare il nome di due docenti con cui ho svolto laboratori di traduzione durante il master e che si sono occupati di poesia francese dell’Ottocento, Ornella Tajani e Pierluigi Pellini. Con Tajani, in particolare, ho svolto un modulo proprio sulla traduzione dei testi teatrali (Cocteau e Pommerat) che mi è stato utilissimo per il lavoro con Francesca da Rimini.

D: Come è arrivata a lavorare sulla Francesca da Rimini di Crawford e qual è stato il suo approccio?

R: La commissione per tradurre Francesca da Rimini è arrivata grazie a Natascia Tonelli e Ferruccio Farina in un momento veramente inaspettato, durante il primo lock-down, e devo dire che è stata una preziosa occasione di riscatto e di risveglio dopo quell’esperienza surreale.
Ricostruisco brevemente le vicende della composizione per chiarirvi l’approccio che ho adottato: Crawford scrisse l’opera tra gennaio e giugno del 1901; una volta terminata la stesura partì per Londra per discuterne con la sua committente, nonché cara amica Sarah Bernhardt; dopo averla letta insieme, Bernhardt firmò il contratto per la produzione della tragedia e ne affidò la traduzione a Marcel Schwob (che per lei aveva già tradotto l’Amleto insieme a Eugène Morand). Quell’estate Schwob si trovava a Jersey con il fedele servo cinese Ting-Tse-Ying, nel tentativo di recuperare la sua cagionevole salute. L’insopportabile prigionia sull’isola venne interrotta dalla visita di Crawford, che arrivò con il suo manoscritto. Stando a una lettera indirizzata alla moglie Marguerite Moreno, al 29 giugno Schwob aveva già letto l’opera, che trovava eccellente e che era molto felice di tradurre. Il 22 aprile 1902, Bernhardt avrebbe incarnato l’anima di Francesca “che piange e dice” nel suo teatro a Châtelet.
A differenza di Phillips e D’annunzio (autori di due opere in versi su Francesca da Rimini, rispettivamente del 1900 e del 1901), la scelta di Crawford di scrivere in prosa è dettata da cause di forza maggiore: la tragedia è stata composta in funzione della traduzione francese; i versi sarebbero stati traditi a priori (Tonelli ha giustamente sottolineato che è anche un sintomo della modernità della pièce). Tuttavia, in alcuni punti, la sua prosa rivela dei lacerti metrici e si concede delle impennate poetiche. Proprio per questo motivo, nonostante la versione francese sia quella andata in scena e sia quella che mi era stato chiesto di tradurre, ho impostato il mio lavoro come una sorta di dialogo a tre con Crawford e Schwob. Avere due interlocutori piuttosto che uno solo, mi ha permesso di sciogliere alcuni dubbi e in un caso persino di correggere un’espressione.
La traduzione di questa tragedia non pone problemi nell’interpretazione, bensì nelle scelte lessicali (termini medievali specifici tra cui in primis gli appellativi) e nel restituire i riferimenti intertestuali danteschi senza dare alla traduzione una spiacevole patina citazionistica.
Per esempio, nelle battute di Francesca del quarto atto, che sembrano quasi una riscrittura del quinto canto, ho scelto di produrre una versione “infedele” ai termini propriamente danteschi per compensare in altri punti perché volevo produrre un testo autonomo che potesse funzionare in sede di recitazione. La compensazione è un’ottima tecnica di intervento, io l’ho sfruttata traducendo alcune occorrenze di “gentle” con “gentile” (laddove Schwob aveva preferito altri vocaboli diversi tra loro), ho riacceso un riferimento di fisiologia d’amore e talvolta mi sono riferita a Francesca con “monna”.

D: Qual è il giudizio che può dare sullo stile di questo un tempo famoso ma oggi dimenticato romanziere?

Ecco, forse grazie a questa domanda posso approfondire il discorso sui picchi poetici della prosa di Crawford accennato prima. Nel quarto atto compare un botta e risposta tra Paolo e Francesca che cela un distico di cui Schwob coglie la specificità ritmica e ricrea una tenzone in miniatura.

It never yet was day where you were not
No night was ever dark when you were near

I due pentametri giambici di Crawford hanno una struttura molto particolare: nella prima metà troviamo un chiasmo – never yet was day / night was ever -, mentre nella seconda c’è un parallelismo sintattico – where you were not / when you were near. La coppia day-dark funziona da asse centrale e Schwob la rispetterà. Inoltre, questi due versi hanno una preziosità sonora data dalla ripetizione dei suoni /n/ e /w/.

Jamais il n’y eut de soleil là où tu n’étais pas
Jamais nuit ne fut sombre où tu étais près de moi

Il primo sintomo dell’intervento di Schwob è quello di ricollocare gli avverbi temporali ad inizio verso in anafora. Ai blank verse fa corrispondere due faux alexandrins: la cesura cade infatti all’interno di due parole, ma con il tocco di stile dell’allitterazione soleil-sombre proprio nel punto in cui dovrebbe esserci la pausa tra i due emistichi, dando ancor più consistenza all’oscuro sole che ha adombrato l’amore di Paolo e Francesca. Infine, Schwob elabora anche una rima, nonostante sia per l’orecchio ma non per l’occhio.
Tutto ciò per spezzare una lancia in favore della prosa di Crawford, che ogni tanto, di nascosto, si concede qualche lusso. Io ho cercato di non trascurare questo passaggio traducendo con due endecasillabi:

Non un giorno di sole senza te
Né una notte buia s’eri al mio fianco…

D: Ha letto o conosce qualche altra opera di Crawford?

R: Non ho letto altre opere di Crawford, ma mentre traducevo la tragedia mi sono informata sulla sua grande passione per la storia italiana; infatti, non scrisse soltanto romanzi e racconti di genere fantasy e supernatural horror, ma anche diversi volumi di storia su Roma, il Sud Italia e Venezia.
Questo aspetto mi interessava perché nonostante nella préface dichiari di non aver avuto la presunzione di rendere la pièce uno studio di storia, una serie di dettagli e accorgimenti rivelano l’attenzione alle fonti e la scrupolosità cronologica.
Crawford, forse in risposta a una richiesta di Bernhard, amplia l’arco temporale dell’opera ambientando il prologo nel 1275 e i quattro atti nel 1289, versione che rispetta le cronache antiche secondo cui Paolo e Francesca si amarono per quattordici anni prima di essere scoperti. Inoltre Crawford introduce Concordia, la figlia realmente esistita di Giovanni e Francesca, e ha una cura particolare per il décor nelle didascalie.
Come ho già annunciato, questa sua passione si riflette nell’esattezza di alcuni termini tecnici medievali. Per esempio, nella seconda scena del primo atto, Paolo, forse per allontanare il sospetto della somiglianza con Concordia, si lancia in un elogio del fratello:
“Yes, child – and that same father of yours is the bravest man that ever backed a horse or laid a lance in rest.”
“Oui, mon enfant, ton père, que tu vois là, est l’homme le plus brave qui jamais ait chevauché monture ou couché lance au râtelier.”
All’inizio del mio lavoro disponevo unicamente della versione francese e questa espressione mi aveva lasciato qualche perplessità. “Coucher une lance” letteralmente significa riporre, mettere a posto una lancia e il “râtelier” è la rastrelliera per le armi; ma l’iperbole elaborata da Crawford serve a esaltare il coraggio: Giovanni, come i cavalieri di Walter Scott, dovrebbe “partire a lancia in resta” e non “riporre le armi nella rastrelliera”. In questo caso la mia traduzione è andata a correggere un’espressione che aveva creato uno slittamento di senso rispetto all’originale, un’incongruenza e non un arricchimento.

D: Ci sono degli episodi inediti che ci può raccontare in merito a questa esperienza?

R: Mi vengono in mente due dettagli che potrebbero risultare suggestivi ai lettori. Il primo è un dettaglio della scenografia: la poltrona gotica a doppia seduta con un alto schienale, quasi fosse un baluardo conto occhi indiscreti. Come ha sottolineato Tonelli nella prefazione la poltrona è «essa stessa “personaggio” del momento clou, che pare direttamente derivare dall’inchiostro e guazzo di Gustave Doré, Quel giorno più non vi leggemmo avante.»

Il secondo riguarda le differenze di trama tra la versione inglese e quella francese: interessanti a mio avviso perché sono il frutto di rielaborazioni e adattamenti di cui non è possibile ricostruire la genealogia (credetemi, tramite lettere e biografie ci ho lungamente provato).
In primo luogo, il prologo non è presente nella versione inglese, e John C. Moran, curatore dell’edizione inglese del 1980, attribuisce la stesura a una richiesta di Sarah Bernhardt. Lo scopo doveva essere quello di suscitare l’immedesimazione del pubblico.
Le due versioni divergono per la suddivisione delle scene, sicuramente riorganizzate in base alle necessità dello spettacolo, mentre vengono mantenute quasi tutte le indicazioni delle didascalie.
Nella versione francese manca un personaggio, il figlio che accompagna la pazzia di Beatrice Orabile, la moglie di Paolo, e che giustifica maggiormente la maledizione di una madre (a mother’s curse, la malédiction d’une mère) scagliata nel primo atto. La prova tangente del tradimento con una popolana viene traslata nella ben più simbolica pronuncia del nome di Paolo.
L’ultima differenza che tengo ad evidenziare è nella conclusione: se Crawford aveva previsto che Giovanni Malatesta aprisse la porta sul finale della requisitoria di Francesca, che Concordia entrasse e vedesse i corpi esanimi e che Giovanni la zittisse dicendole che la madre era addormentata, la versione francese si chiude in modo più angosciante. Giovanni non apre la porta esterna sbarrata dal chiavistello, ma fugge da quella a sinistra, dalla torretta, e lascia che la sola voce di Concordia, intimorita dal silenzio, continui invano a chiamare la madre.

D: Quando l’ho contattata per proporle l’intervista mi ha anticipato alcuni possibili sviluppi legati alla pubblicazione del suo libro.

R: Sì, speravamo che il volume fosse pronto in tempo per le celebrazioni del settecentenario della morte di Dante e di organizzare una rappresentazione proprio presso la Rocca del Sasso di Verucchio. Per ovvi motivi ci sono stati ritardi e complicazioni, quindi attualmente il progetto è sospeso, ma… mai dire mai. Nel frattempo, fra marzo e dicembre 2021, Ferruccio Farina con il Centro Internazionale di Studi Francesca da Rimini hanno organizzato una trentina di eventi tra mostre, concerti e incontri, e addirittura un flash mob di letture del V canto da 25 università del mondo nella rispettiva lingua del loro paese.
Sicuramente il progetto della messa in scena è stato l’elemento che mi ha condizionato maggiormente nella traduzione perché la preoccupazione della recitabilità del testo è stata costante. Alternavo momenti di traduzione a lettura e recitazione, nonostante io non abbia mai sperimentato la pratica attoriale. Mi piace pensare di aver svolto un lavoro simile a quello di Schwob.
Mi auguro che la rappresentazione che avevamo in programma possa essere realizzata. In tal caso, immagino che anche la mia versione subirà dei ritocchi in funzione dell’adattamento al palcoscenico, e spero che venga sollecitato il mio parere a riguardo, perché la collaborazione può lasciare una traccia importante, sia essa un’occasione di distacco per apportare migliorie, o di sintonia verso un nuovo tipo di interpretazione.

Grazie per questo interessante viaggio nel mondo della traduzione e per tutti i retroscena che ci ha svelato sulla lavorazione della sua versione in italiano della Francesca da Rimini di Crawford, destando sicuramente la curiosità in molti di leggerla. Nel condividere l’auspicio di vedere presto rappresentata la tragedia sulla base di questo testo, la saluto con un arrivederci a presto.

One thought on “Intervista a Letizia Imola, traduttrice della tragedia “Francesca da Rimini “ di F.M. Crawford”

Comments are closed.