Quando lascia il suo piccolo villaggio Nava, Enaiatollah Akbari è solo un bambino di dieci anni (forse), alto come una capra e la cui unica colpa è quella di appartenere all’etnia hazara. E in Afghanistan gli hazara “non possono nemmeno camminare per la strada, perché se un talebano o un pashtun li incrocia e li vede, be’, trova sempre qualcosa che non va: la barba troppo corta, il turbante messo male, la luce accesa in casa dopo le dieci di sera.” E poi, essere l’unico risarcimento per un carico di merci perduto da un padre camionista ormai morto non aiuta. Quello non può essere il tuo posto. Anche se si tratta di un posto senza energia elettrica e con la scuola chiusa, ma di cui ti mancherà vedere i fiori diventare frutta, le stelle e la luna.

“Nel mare ci sono i coccodrilli” è la storia vera del viaggio di Enaiatollah Akbari, che inizia dal Pakistan, dove sua madre, dopo averlo accompagnato con il desiderio di donargli la vita una seconda volta, lo lascia solo con un sacco colmo di promesse estorte (“non usare droghe” … “non usare armi” … “non rubare”), di sogni e di desideri. È lei a ricordargli, infatti, che “un desiderio bisogna sempre averlo davanti agli occhi, come un asino una carota, perché allora di vivere varrà sempre la pena”.

Enaiat, dunque, era solo un bambino costretto a diventar grande. Un clandestino in terre straniere soggetto a vessazioni, sfruttamento, fame e duro lavoro. Tanti gli incontri fatti con giovani in viaggio come lui, tante le insidie nascoste e le difficoltà da superare. Eppure, Enaiat, seppur trafitto dal gelo, grazie anche alla rara ma determinante gentilezza di chi gli ha donato un aiuto, non ha mai smesso di andare, anche senza sapere dove.

Durante il viaggio attraverserà Iran e poi Turchia. Sbarcherà in Grecia, fino a giungere in Italia, a Torino, dove, affidato ad un’accogliente famiglia, comincia finalmente la sua nuova vita. Lì trova un tetto sopra la testa, un letto, la possibilità di studiare, il calore di una famiglia e, così, la voglia di non andare più via.

Una peripezia durata molti anni e raccontata da Fabio Geda attraverso le parole dello stesso Enaiat, perché “se parli direttamente con le persone trasmetti un’emozione più intensa”. Racconti, i suoi, che arrivano allo stomaco come pugnalate e costringono a guardare e vedere non più solo immigrati e clandestini, ma uomini.