Il mondo nuovo di Aldous Huxley

Uno stato totalitario in cui ogni singola azione è pianificata in nome del razionalismo e della scienza, “in uno stemma il motto dello Stato Mondiale: Comunità, Identità, Stabilità”. Una società stabile nella quale gli individui, prodotti di ingegneria genetica, non sono più oppressi dalle guerre, dalle malattie e dalle carestie. Nello scenario distopico immaginato da Huxley, ciascuno può accedere liberamente a qualsiasi piacere materiale, ogni vita subisce condizionamenti naturali e artificiali, tali da azzerare ogni sentimento o emozione, si è la migliore copia di sé stessi.
In questo pianeta del futuro è netta l’assenza di umanità; ogni essere umano è confinato, sempre più solo e fragile. Tutto è sacrificato sull’altare di un malinteso progresso scientifico, nella cui narrazione riecheggia il legame con la scienza della famiglia dell’autore. Le classi direttive e subordinate, i governatori degli stati totalitari conosciuti, il condizionamento e il soma sono ingranaggi dello stesso meccanismo: il progresso. Niente è lasciato al caso, nulla è decadimento.
La vita programmata del mondo evoluto è in contrapposizione alla vita del selvaggio. Il selvaggio osserva il mondo nuovo declamando Shakespeare, nutre legami e conoscenze ormai confinate in una riserva: l’amore e la famiglia da un lato, la letteratura, la diversità culturale e la storia dall’altro.
Il confine che delimita l’utopia dalla realtà appare tra le righe profeticamente labile: “La felicità effettiva sembra molto squallida in confronto ai grandi compensi che la miseria trova”. Tutto ciò che ci circonda è apparenza, quello che inseguiamo è un successo asettico e egoistico, covando un “male radicale” kantiano.

“Oh Nuovo Mondo mirabile, che contieni simile gente!”.

Novanta anni dopo l’estremizzazione del romanzo, si assiste al costante svilimento della bellezza, del sentimento.