Ogni giorno il nostro corpo ci ricorda ciò che siamo stati, ciò che vogliamo e forse, ciò che mai diventeremo. Possiamo detestarlo o venerarlo come un dono, possiamo accettarlo ma non sceglierlo.

 Eva rifiuta il suo corpo di femmina, non riconosce sé stessa nella curva dei fianchi. Eva compie diciotto anni e con coraggio decide di sbarazzarsi di quei tratti esteriori che non le appartengono, per allinearsi a ciò che il suo vero io desidera, fin dal primo vagito.

Nel corpo di Eva, ormai involucro di carne e sangue, albergano turbamenti e sconfitte, che rendono la sua esistenza fragile come una scultura abbozzata. È sua madre a plasmarne la forma, a raccontarci la sua storia con un linguaggio lucido, amorevole, mai patetico.

Le parole di una madre che, con la fermezza di uno scalpello, delineano i contorni di un percorso, non privo di ostacoli. Una madre che, con il suo corpo da nutrice, accoglie e, allo stesso tempo, rifiuta la sua scelta di rinascere, chiedendosi “se fosse lecito permetterti di assassinare il tuo corpo per salvare la tua anima”. Lei è per tutti la madre che imbastisce nella dicotomia anche la propria esistenza, ripetendo nel suo dialogo interiore “sono la staccionata, il muro di cinta, lo steccato dentro cui vi muovete. Sono la regola, la disciplina, sono la guida. Io che avrei voluto essere solo acqua da farsi trasportare in mare, sono la terraferma, l’albero forte con le radici grosse a cui tutti state attaccati, dentro la cui ombra vi muovete”.

 Eva rinasce nel corpo di Alessandro, involucro di carne, sangue e anima, risorge manifesto di libertà, mostrandosi al mondo con tutta la bellezza che sa donare solo l’autenticità.